Come in un giuoco antico di avanzate e ritorni, sul sentiero della vita gettiamo i nostri dadi, proprio nel modo in cui lo fecero distratti soldati romani, ai piedi e all’ombra di un manufatto ligneo che ha cambiato la storia del mondo. Proprio come loro, sbadati nel quotidiano incedere tra le mulattiere del pianeta, insensibili alla immane sofferenza che appena poco più in là trasuda sangue e lacrime, eppure trasparente ai nostri occhi. Ci capita sovente di pensare di essere giunti al termine della notte quando riusciamo a dipanare l’aggrovigliata matassa di situazioni in cui, nostro malgrado, ci troviamo immersi. Ma proprio mentre ci sembra di intravedere, oltre il nostro punto di osservazione, il bagliore della luce del giorno e le ultime stelle del mattino, ci può capitare di inciampare di fronte a qualcosa di inatteso che schiude le porte del profondo e ci pone di fronte a un nuovo buio da cui però si irradiano ammalianti lampi radioattivi. Un po’ quello che accade quando entriamo nel campo gravitazionale dei nuovi versi di Stanislao Donadio.
(dalla prefazione di Francesco Aronne)
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